Comunicazione gentile: dall’empatia alla reciprocità

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Che fine ha fatto la comunicazione gentile? A furia di sorvolare su tante situazioni, abbiamo perso di vista le basi del vivere civile e i risultati, diciamolo, sono disastrosi. Salutare, ringraziare, scusarsi, chiedere una cortesia con il giusto garbo, dovrebbero essere gesti naturali, le fondamenta di ogni relazione costruttiva.

Eppure, facciamo sempre più fatica a interagire con serenità. Lamenti, polemiche e malintesi, infatti, inquinano il dialogo, generano reazioni aggressive e creano conflitti spesso difficili da gestire.
Nella maggior parte dei casi, tutto nasce da una mancanza di attenzione, da uno scarso interesse per l’altro. Si tende a rispondere in fretta, in modo distratto, a evitare il confronto invece di affrontarlo.

Comunicare con gentilezza significa, soprattutto, essere capaci di accogliere: l’accoglienza è ascolto, l’ascolto è comprensione, la comprensione è empatia. Chi è gentile non ignora, cerca un punto d’incontro.

La gentilezza va coltivata con il buon esempio

La gentilezza si trasmette e va coltivata, affinché un bambino gentile possa diventare un adulto cortese. Oggi vedo poco impegno su questo fronte. Se il genitore, per primo, agisce in maniera sgarbata, utilizza un vocabolario volgare e passa ai figli l’idea che per ottenere qualcosa bisogna essere prepotenti, cosa pensiamo di ottenere? Inutile colpevolizzare solo i ragazzi. C’è un intero contesto da ricostruire.

È ormai imperativo impegnarsi nella diffusione di buone pratiche, ogni giorno, con le parole e con i fatti. Rispetto e buona educazione non sono elementi accessori: urlare, scegliere termini inopportuni, scrivere frasi offensive sui social network, umiliare chi si trova in una situazione di svantaggio, spinge chiunque osservi o ascolti a fare lo stesso (compresi i più piccoli). Si tratta del cosiddetto “effetto specchio”. Proprio per questo motivo, come dico sempre, dobbiamo riscoprire la bellezza di essere persone responsabili.

Comunicazione gentile: una necessità quasi inconscia

Essere empatici significa mettersi nei panni dell’altro, cercare di capire cosa prova, concentrarsi sui suoi sentimenti e bisogni in totale assenza di giudizio. Non a caso, la comunicazione non violenta (CNV), ideata da Marshall Rosenberg, è un modello comunicativo basato sull’empatia e segue il principio secondo cui tutti gli esseri umani sono capaci di provare compassione. Ugualmente, si parla di empatia nella medicina narrativa, per descrivere le dinamiche della delicata relazione medico-paziente.

L’empatia è l’arte di comprendere le emozioni e ci aiuta a creare un buon feeling, anche quando non conosciamo abbastanza chi ci è di fronte. Anzi, è proprio quel lieve distacco a favorire la comunicazione, perché ci permette di aiutare, dare consigli o trovare le parole adatte senza perdere lucidità a causa del coinvolgimento emotivo. La persona empatica è, prima di tutto, auto-critica e ciò si traduce in apertura mentale, tolleranza, genuina disponibilità. Nasce qui quella gentilezza spontanea che ci fa sentire accolti.

Ti è mai capitato di interagire con qualcuno che incontri per caso e pensare “quanto è gentile!”, quasi con stupore, come se fosse un evento eccezionale? Hai notato che quando ciò accade ti senti bene e hai la necessità di comportarti nello stesso modo? In questo mondo c’è più arroganza che gentilezza, non è certo una novità. Il vero punto del discorso è un altro: il nostro bisogno inconscio.

Ci rendiamo conto di quanto, ogni santo giorno, senza averne chiara consapevolezza, speriamo arrivi una parola gentile o un gesto cortese che renda migliore la nostra giornata?

Se tu sei gentile, io sono gentile: la bellezza della reciprocità

A volte è difficile rispondere con amabilità, specie se l’interlocutore è maleducato, ma il segreto è proprio alimentare una reciprocità positiva. Opporre parole costruttive a quelle distruttive, aprire la porta a chi te la chiude in faccia. Ci vuole grande pazienza, anche qualche “Ohmmmmm…”, però i risultati si ottengono. Reagire con calma e cordialità ha sempre un effetto spiazzante per chi insegue l’invettiva a tutti i costi.

Tempo fa, per esempio, ho dovuto risolvere un problema nato per negligenza altrui. Nonostante avessi prova delle mie buone ragioni, l’impiegato ha iniziato a fare una scenata. Ho cercato di restare calma e ho raccolto con comprensione il suo disappunto: “Capisco il suo punto di vista, fossi al suo posto sarei arrabbiata anch’io. Osservi la tabella, però: si renderà conto che il suo computer non ha registrato la mia richiesta”. Dopo poco, il suddetto ha smesso di urlare e ha iniziato ad ascoltarmi.

Chi semina gentilezza, raccoglie gentilezza. Ho altri 2 esempi a sostegno di questa tesi. Ho individuato un negozietto molto carino. Sono entrata per curiosare e poi sono tornata per acquistare. Mi ha convinta la cortesia della commessa. Ho evidenziato di aver apprezzato il suo garbo e lei si è quasi commossa: mi ha confidato di essere in prova e, quindi, molto insicura. Le mie parole le hanno trasmesso conforto.

Idem in un altro punto vendita che frequento: è mia abitudine scambiare 2 chiacchiere con l’operatrice di cassa. L’altro giorno mi ha detto: “Sono sempre felice di vederla, mi porta allegria. A volte mi sento trasparente: tante persone passano, pagano e vanno via senza salutare”. No comment.

Conclusione

Si sa che ciò che doni non sempre torna indietro, tipo boomerang. Questa consapevolezza, però, non ci autorizza a essere scostanti con il prossimo. La gentilezza è uno strumento di comunicazione, che facilita la manutenzione dei rapporti interpersonali. E ammettiamolo: ci serve quanto l’aria che respiriamo.