Essere resilienti, educare alla resilienza

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Educare alla resilienza è importante quanto essere resilienti, specie quando si coordina un gruppo di lavoro. La parola “resilienza” assume significati diversi in base al contesto in cui è inserita (ingegneria, informatica, biologia ecc.). Qui analizzeremo il termine da un punto di vista comunicativo/psicologico, naturalmente. L’articolo, tra l’altro, completa una riflessione avviata in precedenza sullo stesso tema.

Che cos’è la resilienza? È la capacità di resistere agli eventi negativi, di superare le avversità della vita in modo attivo e creativo. La persona resiliente riesce a fronteggiare le difficoltà anche quando le risorse sono poche, ha il dono di trasformare uno svantaggio in un vantaggio, ha la forza di reagire invece di subire con rassegnazione anticipata. La resilienza, dunque, è uno strumento? Sì, ma non solo.

Perché educare alla resilienza

La resilienza rappresenta, al tempo stesso, una caratteristica della personalità, una competenza da coltivare e una componente della creatività. Essere ottimisti aiuta? Senza dubbio, ma non ritengo sia indispensabile. Vedere sempre il bicchiere mezzo pieno non ci rende automaticamente resilienti.

All’eccessiva positività preferisco l’ottimismo pragmatico, che per me significa evitare espressioni cariche di brillanti aspettative a prescindere, tipo: “Andrà tutto bene, ne sono certa!”. Penso sia più costruttivo dire: “Ho fatto del mio meglio, spero in un buon risultato. In caso contrario, troverò il modo di rimediare.”.

La differenza è sostanziale: la seconda convinzione, rispetto alla prima, previene lo sconforto, perché basa la speranza sulla concretezza dei fatti, sulla realtà, ti prepara ad accogliere eventuali fallimenti.

La vita di ciascuno di noi ha salite e discese, bisogna prenderne atto e sviluppare adeguate contromisure (ognuno avrà le sue). In assenza di un buon paracadute di supporto… il rischio è di crollare miseramente al primo, inaspettato ostacolo. Ecco perché è importante educare alla resilienza. 

Cadere fa parte della natura umana, quello che conta è riuscire a rimettersi in piedi e andare avanti. Trasmettere tale consapevolezza anche a scuola aiuterebbe i bambini ad accettare le inevitabili sconfitte quotidiane presenti e future, senza perdersi d’animo (es. oggi potrebbe essere un brutto voto, domani una critica da parte del datore di lavoro).

Educare alla resilienza apre nuovi orizzonti

Puoi essere una persona resiliente, oppure puoi diventarlo. Ci hai mai pensato?

La resilienza non è una condizione, ma un processo: la si costruisce lottando.

– cit. George E. Vaillant

Pazienza, tenacia e motivazione sono tre ingredienti fondamentali, così come il senso dell’umorismo.
La nostra società non è più abile nel gestire i cambiamenti, né capace di tollerare le sconfitte.
Ciò, di conseguenza, alimenta sentimenti di frustrazione, risentimento, aggressività.

Ridere può alleggerire il clima, favorire la ricerca di soluzioni alternative, osservare i problemi sotto un’altra prospettiva, mettersi in discussione. La resilienza aiuta la creatività e supporta le aziende nel prendere decisioni: chi ha il coraggio di guardare oltre, di reinventarsi, sarà sempre un passo avanti agli altri.

Non a caso, nelle organizzazioni e nel sociale, esiste la figura del tutore di resilienza. Il suo compito è accogliere, comprendere e contrastare traumi, negatività e disagi. Per migliorare. D’altronde, come ho scritto in passato, prendersi cura delle persone è ciò che distingue un vero leader da chi crede di esserlo.

La resilienza apre nuovi orizzonti perché stimola l’inventiva: si cerca così di recuperare un errore, colmare una lacuna, correggere un difetto. Al contrario, arrangiarsi significherebbe solo scegliere, senza alcuna partecipazione attiva, un espediente qualsiasi, con l’unico scopo di eliminare il problema.

Essere resilienti: un esempio pratico

Insomma, essere resilienti si può, anche quando le condizioni non sono favorevoli. Un esempio pratico, per me, è il protagonista della serie tv “The Good Doctor”, il dottor Shaun Murphy. Ho già parlato di questo personaggio in un articolo dedicato alla comunicazione efficace in ambito sanitario.

Ora vorrei collegarmi a un episodio della seconda stagione appena conclusa, in cui Shaun dimostra di essere una persona resiliente a dispetto delle difficoltà legate all’autismo. Shaun è uno specializzando in chirurgia, che ha dimostrato eccellenti capacità di lavoro in équipe.

Tutto cambia con l’arrivo del nuovo primario, che inizia a ridistribuire i ruoli e decide di trasferire Shaun in Patologia, senza recepire con la giusta empatia il suo disappunto, né ascoltare il parere dei colleghi che già lo conoscono e apprezzano ( ⇒ questo è un errore molto grave, di cui parlerò in un prossimo articolo).

Il primario, infatti, è convinto che l’autismo sia un limite per un chirurgo, soprattutto perché è necessario comunicare con i pazienti e, a suo giudizio, il dottor Murphy non è in grado di farlo.

Sarà la forte motivazione di Shaun, la grande passione per il suo lavoro, a dargli la forza di imporsi, da solo, per cercare i suoi diritti e affermare la volontà di continuare il percorso professionale come specializzando in chirurgia. Senza subire, senza arrendersi, nonostante tutto.


⇒ Un libro per approfondire:
Le prove della vita. Promuovere la resilienza nella relazione educativa – di A. Vaccarelli, ed. FrancoAngeli